Libro revolution

lunedì 12 ottobre 2009

L'editoria, si sa, ha un lontano debito con la sartoria, dato che le pagine hanno iniziato a fare un libro solo quando sono state ben cucite insieme. Non è strano allora che la parola 'snippet', molto usata da chi si occupa di editoria elettronica, arrivi dritta dai laboratori tessili: è lo scampolo, il ritaglio di stoffa. Qualche decennio fa il termine è passato all'informatica (a indicare il frammento di un codice sorgente) e di lì è arrivato alla sua terza vita, quella che lo sta facendo diventare comune a tutte le lingue: snippet è anche lo stralcio di un libro messo gratuitamente on line. Di solito l'introduzione, un capitolo, o solo l'indice. A cosa serve pubblicare sul Web uno snippet? Ancora con precisione non si sa. Molti editori però hanno messo in Rete gli snippet dei loro titoli - chi con avarizia, chi con più generosità - per vedere l'effetto che fa: cioè se alla fine vende di più o di meno, se viene promozionato o cannibalizzato. Un modo come un altro per affrontare l'ignoto, cioè il futuro del libro nell'era in cui tutto è digitalizzato e circola liquidamente nel Web. Un tema attorno al quale da qualche mese stanno volando gli stracci, e non potrebbe essere diversamente visto che sono contemporaneamente in gioco interessi industriali e una questione rilevante come la diffusione del sapere. Partiamo dai primi. Una multinazionale come Google sta digitalizzando 15 milioni di libri (ed è già a due terzi del lavoro) prendendoli dalle maggiori biblioteche del mondo per metterli on line. L'obiettivo è quello che hanno sempre avuto a Mountain View: fare di Google l'hub universale della conoscenza via Internet. Su alcuni di questi titoli, circa il dieci per cento, non ci sono litigi perché non più coperti da diritti d'autore. Il problema sono gli altri, soprattutto quelli ancora sotto copyright ma introvabili sugli scaffali delle librerie: sei-sette milioni di volumi. Secondo Google renderli disponibili al pubblico è cosa buona e giusta, perché consente la famosa 'coda lunga' grazie alla quale chiunque potrà comprare i titoli fuori catalogo, rari, di nicchia.
In teoria agli editori l'idea di fare ancora un po' di soldi con libri che ormai non fruttavano più niente ovviamente piace. Ma poi ci si è accapigliati sul come: conviene davvero dare tutto a Google e prendersi un forfait? O è meglio mettere i testi in vendita per conto proprio? E se si accetta il forfait, quanto deve essere? E gli snippet che Google mette gratis on line quanto devono essere ampi? Eccetera. Sembrano technicalities ma si sta litigando parecchio, con l'aggiunta di ulteriori complicazioni: ad esempio, gli editori europei fanno le bizze e rifiutano un accordo come quello proposto da Google ai loro omologhi americani. Sempre in Europa, i governi sono perplessi all'idea che il patrimonio culturale del Vecchio Continente diventi patrimonio di un sito Usa. Mentre alcuni concorrenti di Google - tipo Amazon, Yahoo! e Microsoft - si rivolgono all'Antitrust per fermare quello che secondo loro è un progetto monopolistico.Ma se gli addetti ai lavori sono persuasi che alla fine la questione delle 'code lunghe' si risolverà - in fondo conviene a tutti - altrettanto diffusa è la convinzione che lo scontro in atto sia solo un piccolo antipasto di quello che accadrà domani, quando tutti i libri (compresi quelli usciti da poche ore) inizieranno a circolare liquidamente sul Web, con infinite copie realizzate in pochi secondi e successiva disponibilità degli stessi in ogni angolo della Rete, dai siti peer-to-peer ai social network. Qualcuno immagina un replay di quello che è accaduto alla musica: una fase di pirateria selvaggia e una, successiva, in cui le copie illegali e quelle autorizzate finiscono per convivere nel Web. Ma la storia di Internet insegna che niente si ripete mai allo stesso modo, soprattutto se diversi sono i contenuti e i suoi fruitori. E il fatto che ora si parli di libri - strumenti di sapere e di emancipazione sociale e civile, non solo di entertainment - andrà inevitabilmente a mettere in dubbio anche a livello politico il concetto stesso di proprietà intellettuale.

In fondo non è che il copyright sia sempre esistito: è nato alla fine del 1500 in Inghilterra come 'privilegio di stampa' dei tipografi e si è esteso agli autori solo nel Settecento, quando è stata elaborata la dottrina della proprietà intellettuale. Insomma, il copyright così come lo conosciamo è frutto di una precisa tecnologia (la stampa su carta) e di un'epoca economica (l'affermarsi della borghesia). A una tecnologia diversa e un'epoca economica differente può corrispondere senza scandalo una diversa visione della proprietà intellettuale. Di qui la nascita, negli ultimi anni, della cultura hacker e dei partiti dei pirati, che in Italia sono ancora considerati un fenomeno folcloristico ma nel Nord Europa vanno aumentando i loro consensi, specie nelle fasce più giovani. Il movimento dei pirati, nato in Svezia nel 2006, è diventato in pochissimo tempo la terza forza politica del Paese e quest'anno ha superato il 7 per cento dei voti, esprimendo il suo primo parlamentare a Strasburgo. Sconfinato rapidamente in Germania, il Piratenpartei ha ottenuto un due per cento alle politiche: ma se avessero votato solo i neoelettori, i diciottenni, avrebbe preso il 13 per cento. I temi che pone questo movimento sembrano ineludibili: la diffusione del sapere è il primo obiettivo di ogni società, quindi il compito della politica è rimuovere gli ostacoli a questa diffusione, e anzi incentivarla. Come? Più banda larga, più infrastrutture digitali e più educazione al Web, certo, ma anche meno diritti d'autore. Perché secondo i pirati se alla fine si fa il conto dei vantaggi e degli svantaggi una società si sviluppa di più - anche in termini economici, di ricchezza - quando il sapere circola liberamente. Utopia, eversione, anarchismo? Neanche tanto: se si sfrondano le opzioni dei pirati da un po' di ideologismi, ci si trova molto buon senso. Lo ha spiegato, appena arrivato all'Europarlamento, lo svedese Rick Falkvinge rivolgendosi ai colleghi in aula: "Scusate, ma se le biblioteche pubbliche prestano titoli cartacei coperti dal diritto d'autore a titolo gratuito da un secolo e mezzo, mi sapete spiegare perché lo stesso non debba poter avvenire, per uso privato, anche on line?". Di qui una serie di richieste altrettanto pragmatiche, come la punibilità per la violazione del copyright solo se questa viene realizzata a scopi commerciali e l'abbassamento a cinque anni della durata della proprietà intellettuale: un modo, secondo Falkvinge, per consentire agli autori di ottenere un equo compenso liberando tuttavia l'opera al pubblico dominio in un tempo breve.Tutte idee che fanno venire i brividi alla schiena agli editori, ma che iniziano a essere discusse con meno paura proprio tra coloro che in teoria dovrebbero essere i maggiori beneficiari della proprietà intellettuale, cioè gli autori. Al contrario di quel che avviene nella musica, nella maggioranza dei casi i creatori di opere letterarie (romanzi, saggi o altro) pensano che i ricavi economici immediati non costituiscano il loro principale 'ritorno' dalla pubblicazione. E che gli appagamenti derivanti dalla propria opera siano spesso indiretti, variando a seconda dell'autore e dello scopo del libro: si va dalla semplice soddisfazione di aver fatto circolare le proprie idee rendendole materia di dibattito civile e politico, alla carriera accademica, alla notorietà-vanità personale, fino ai benefici indiretti di tipo anche economico derivanti dalla notorietà.Di qui la possibilità che la prossima diffusione di e-reader (i lettori elettronici di libri, come il Kindle di Amazon che sta per arrivare in Europa) e la conseguente esplosione dell'editoria libraria on line porti a scenari diversi da quelli che hanno caratterizzato il destino della musica in Rete. Con gli autori di libri che - a fronte di qualche pionieristica case history in cui un volume liquidamente circolante on line porti notorietà e vantaggi indiretti più attraenti e rilevanti rispetto al semplice copyright - tendano gradualmente a liberarsi di loro volontà dall'intermediazione di un editore. E con l'ipotesi che l'attuale proprietà intellettuale - rigida e lunghissima - vada frammentandosi in una galassia infinita di forme per quanto riguarda non solo la durata, ma molto altro, compreso l'uso che ne farà il fruitore. Esempi di queste sfumature sono già oggi offerti dalle cosiddette licenze Creative Commons, che hanno al loro interno tante possibilità di licenze diverse.


E siccome non è detto che il libro cartaceo debba morire- come la tivù non ha ucciso la radio, eccetera - è possibile che l'intera editoria libraria vada caratterizzandosi proprio per la sua estrema biodiversità: libri cartacei rilegati (come ora) e venduti soltanto off line; libri di carta che però hanno un'edizione completa anche in Rete; libri di carta che on line hanno soltanto qualche capitolo; libri che vivono prima solo su carta e, qualche anno dopo l'uscita, solo in Rete; libri sul Web che chiederanno di essere pagati in tutto o in parte; libri in Internet che invece saranno gratuiti in nome della circolazione delle idee; libri digitali che però ci si potrà stampare e rilegare 'on demand' all'università o nella copisteria più vicina (Google ha appena presentato la sua Espresso Book Machine proprio a questo scopo). E così via.Tutto molto 'su misura', tutto ritagliato sia sull'autore sia sul lettore: perché evidentemente è destino che l'editoria abbia un debito con la sartoria.

Fonte: l'espresso
Autore dell'articolo: Alessandro Gilioli
ha collaborato Alessandro Longo

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