Quelli che ci fanno leggere Cechov e Marquez

mercoledì 30 settembre 2009


E tutti gli autori, a volte di lingue remote, che non avremmo mai potuto avvicinare senza il lavoro dei traduttori. Che ci raccontanto qui come il loro lavoro sia complesso e creativo. E come richieda senso dell'avventura e coraggio

C’e’ chi, prima di mettersi al lavoro, legge interamente il libro da tradurre, e chi invece preferisce non farlo. C’e’ chi butta giu’ una versione iniziale stiracchiata per poi dedicarsi davvero alle revisioni, e chi invece dà tutto fin dalla prima stesura. C’e’ chi ha fatto una scuola di traduzione e chi ha coltivato solo la dura pratica. C’è chi guadagna di più e chi guadagna di meno, anche se generalmente nessuno guadagna abbastanza e sono pochissimi quelli che per vivere traducono e basta. Certo tutti sono dipendenti da internet, lavorano con ossessività maniacale e sgomitano in un mondo sempre piu’ affollato e complesso. Tanto che forse noi lettori dovremmo essere a loro molto più grati perché sfornano la lingua che leggiamo da tutto il mondo, s’imprimono nella nostra memoria con trovate sofferte pur di rendere l’originale, eppure di questi artigiani della parola difficilmente sappiamo anche il nome.
“Negli ultimi anni, il mestiere del traduttore è profondamente cambiato” racconta Bruno Osimo, 50 anni, traduttore dall’inglese e dal testo russo (anche di Cechov e Tolstoj), docente di Teoria della traduzione in vari atenei italiani. “Da una parte in meglio, perché l’apertura di scuole, master e corsi ha portato a maggiore professionalità. Dall’altra in peggio perché la sovrabbondanza di offerte - spesso a bassissimo prezzo – rischia di abbassare la qualità dei lavori. Del resto il lettore non ha né tempo né modo di sapere cosa gli è stato cucinato e se ci sono giovani che traducono gratis, è ovvio che l’editore possa puntare su loro senza calcolare troppo le conseguenze. In genere, comunque, cosi’ i compensi si abbassano”. Del resto, l’illusione che la carriera del traduttore sia facile e ricca di successi, è cresciuta proprio con il proliferare delle scuole: “C’e’ una generazione di laureati in lingue e lettere che ha rinunciato all’insegnamento, ha seguito corsi e master post-laurea nell’illusione che ci sia spazio” spiega Martina Testa, 34 anni, direttore editoriale di Minimum Fax e traduttrice dall’inglese fra le più richieste e prolifiche, “nessuno è stato avvertito del sovraffollamento. Cominciare è difficilissimo, ormai, ma se si ingrana con un primo lavoro, poi continuare non è cosi’ complicato. Si entra in un giro di raccomandazioni virtuoso. In fondo, non sono passati molti anni da quando tradurre è diventato veramente una professione riconosciuta”.
Sul riconoscimento della professione però si anima la battaglia dell’esercito di traduttori. “Con internet, indubbiamente, tutto è cambiato” spiega Anna Mioni (traduttrice dall’inglese e dallo spagnolo, tra cui Stephanie Meyer), 38 anni. “Si è arrivati a una democratizzazione del mestiere, le case editrici sono più accessibili, è più facile proporsi, la ricerca è semplificata, il contatto con i colleghi è immediato. Però proprio questo spinge a guardare l’altra faccia della medaglia. Oltre a paghe indubbiamente basse, non abbiamo previdenza né pensione, non siamo tutelati e solo da poco è stata aperta una sezione del sindacato nazionale scrittori dedicata espressamente ai traduttori”.
E’ fondamentale allora non fare una battaglia fra poveri, giocando al ribasso. “Anche per questo esiste
www.biblit.it, un forum dove noi traduttori ci incontriamo, ci aiutiamo e cerchiamo di mantenere un fronte comune”. Un fronte che trova sempre più numerosi consensi. Con libri che ne raccontano il lavoro (come Il mestiere di riflettere, Azimut, pp. 181, euro 12.50) e incontri di qualità, come le annuali Giornate della Traduzione Letteraria di Urbino. “Curiamo questa manifestazione” spiega Ilide Carmignani, straordinaria traduttrice dallo spagnolo (traduce tra gli altri Gabriel Garcia Marquez) “non solo per approfondire i problemi del mestiere ma anche perché c’è poco da esser contenti, qui da noi. Siamo ultimi in Europa, quanto a riconoscimento economico. Il problema è che il nostro Paese è un paese in cui si legge poco, in cui, come dice Tullio De Mauro, c’è un enorme analfabetismo di ritorno. I lettori veri, allora, sono pochi, e senza un pubblico che riconosca le traduzioni buone da quelle cattive è difficile rivalutare il mestiere”.
Il mestiere, comunque lo si valuti, è fatto di passione, fatica, reazioni meccaniche e slanci creativi, artigianato della parola e ore e ore di computer, rapporto con la realtà, con i colleghi e con gli autori. “Soprattutto con gli autori” dice Martina Testa. “Anche quelli apparentemente meno disponibili. David Foster Wallace, per esempio, di fronte ai miei dubbi e alle mie richieste di chiarimento, cominciava sempre dicendo che era inutile ogni sforzo di traduzione, impossibile. Poi pian piano cedeva, cominciava a spiegare e chiariva ogni dubbio con mille dettagli e alla fine era contento”.
Adelaide Cioni, 32 anni, (traduttrice a tempo pieno della letteratura americana e lo fa per Feltrinelli, Einaudi e Minimum fax tra le altre), conferma: “L’autore diventa come un amico e spesso,per essergli fedele, devi davvero tradirlo”. Perché tradurre, si sa, è un po’ tradire. Ma nell’arte del tradimento c’è chi eccelle in vista della fedeltà. E quello è il grande traduttore. “Mentre lavoravo su Adam Langer, per esempio” continua la Cioni “mi accorgevo che a tradurlo con apparente fedeltà ne veniva fuori un cretino. E invece è uno scrittore che stimo moltissimo. Ho cercato di immaginare come avrebbe scritto se fosse stato italiano. Mi pare ne sia rimasto contento”
Non basta però la cura del rapporto con lo scrittore. “Chi va tenuto a basa è spesso l’editor” dice Bruno Mazzoni, traduttore di punta dal romeno.” Tanto per dirne una, in Italia gli editor cercano costantemente di evitare ripetizioni. Ma in alcuni casi le ripetizioni sono necessarie e volute dall’autore come un parossistico tentativo di trasmettere ansia, tensione o altro. Allora bisogna mostrare i muscoli e far rispettare l’originale. Preside della facoltà di Lingue a Pisa, Mazzoni combatte anche la sua personale battaglia perché il lavoro del traduttore non sia snobbato dagli accademici. “Non tanto perché noi che traduciamo dal romeno siamo assai più pagati che altri. Il fatto è che c’e’ un atteggiamento quasi lobbistico che finisce per avere ricadute culturali. Io per esempio, traducendolo, sono riuscito a far conoscere in Italia un grande autore come Mircea Cartarescu”. Che l’Accademia non voglia sporcarsi le mani con un lavoro artigianale?.”Artigianato, si, di questo si tratta” racconta Adelaide Cioni. “Io lavoro sulle parole come su un pezzo di creta. Rielaboro, limo, risolvo. E a volte, quando sono stanca, ho bisogno di fare lo stesso artigianato, ma non più con le parole e allora vengo qui a riparare motorini ma soprattutto vespe. “Mostra l’officina storica di Vito e intanto si pulisce le mani. “Molti libri li porto qui e quando ho un problema mi metto al lavoro su un motore e ci penso insieme a Vito. E’ lui che mi ha aiutato più di tutti”.
Sotto una moto anni Sessanta l’uomo tira fuori la testa sporca di grasso e sorride.


Autore dell'articolo: Matteo Nucci
Fonte: Il Venerdi di Repubblica

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