[Speciale Minimum Fax] Intervista ad Ann Beattie

mercoledì 30 settembre 2009

In Gelide scene d'inverno, hai scelto come protagonista un disilluso cronico. Apparentemente Charles sembra essere sconfitto da tutto: dalla madre malata di mente, dalla disperata mediocrità del suo patrigno, da tutte quelle persone che invadono la sua casa e la sua vita, cercando aiuto. Risponde sempre al telefono, ma con un atteggiamento svogliato e passivo, della serie: «Tanto non cambierà mai nulla, e niente mi può toccare veramente (tranne Laura)». Poi entra in scena Laura, la reale causa all'origine di questo stato d'animo, e improvvisamente Charles ritrova tutta la sua energia e la sua voglia di fare. È un modo per celebrare i benefici che si nascondono dietro le ossessioni?
In un certo senso, il personaggio di Charles si è evoluto mentre scrivevo il romanzo. Non avevo già un'idea prestabilita in partenza di quanto sarebbe stata forte la sua ossessione. Ma ho scoperto che quell'ossessione ne faceva un personaggio credibile, e che nel descriverlo avevo a disposizione un bel potenziale comico. Un personaggio con una fissazione è sempre interessante, per via del suo livello d'intensità, ma al tempo stesso una sfida: come si fa a evitare di essere noiosi nel presentarlo, se i suoi pensieri e le sue reazioni sono prevedibili? Bisogna anche considerare che il libro è stato scritto tanto tempo fa. Forse oggi Charles aprirebbe un blog.
L'inverno è generalmente considerata la stagione morta, o comunque la più silenziosa e stagnante; durante l'inverno, tutti aspettano la primavera, un po' come Sam nel romanzo aspetta il nuovo album di Dylan, che deve uscire da un momento all'altro, questione di giorni. Il fatto è che le stagioni sono cicliche, ma le età no; e quella di Dylan è la musica degli anni Sessanta, che sono passati e che, noi ora lo sappiamo, non sono più tornati. Volevo allora chiederti: che cosa aspettano i tuoi personaggi carichi di nostalgia durante il loro inverno?
Nel caso di Sam e Charles, c'è sicuramente una vena di romanticismo irrealistico (o esagerato) nel modo in cui guardano le cose della loro vita, combinato con un'eccessiva nostalgia. E sono un po' fuori dal mondo anche nella loro autoindulgenza. Ma io riesco comunque a immedesimarmi in loro: una parte di me vorrebbe che le cose fossero veramente così semplici come se le immaginano. Tutti e due sono anche molto bravi a creare problemi, sia a sé che agli altri. (In effetti è difficile scrivere di personaggi che non causano problemi.) Mentre scrivo, i personaggi cominciano a vivere di vita propria, e io non faccio altro che seguirli. Nel processo della scrittura c'è molto di ipotetico: se crei un personaggio che ha certi tratti del carattere particolarmente frustranti, come fai a presentarlo per quello che è, con la vita che ha (per quanto basata su una serie di false convinzioni), e al tempo stesso a fare un passo indietro e non giudicarlo?Io non credo che il mio romanzo sia particolarmente radicato in una certa generazione. Mi sembra che questo tema abbia molti precedenti letterari. Senza volermi mettere al loro stesso livello, penso al Don Chischiotte, alla ricerca del Graal, alle figure sull'urna greca di Keats.
Hai dichiarato che all'epoca in cui hai scritto Gelide scene stavi leggendo Beckett, e che speravi che qualcosa dei suoi dialoghi esilaranti e criptici fosse passato anche nelle tue pagine. E sicuramente così è stato, ma secondo me i tuoi dialoghi sono più realistici e autentici, e questo forse dipende dal modo diverso in cui utilizzi l'ironia. L'ironia è tradizionalmente lo strumento della distanza e dell'estraniamento, ma paradossalmente tu lo usi per creare personaggi che spingono il lettore all'identificazione. Come ci sei riuscita?
Questo è un complimento che accolgo volentieri, grazie. In effetti gran parte dell'ironia espressa dai personaggi, nonché delle situazioni ironiche in cui vengono a trovarsi, è un'ironia innocua, non cattiva.Forse la mia generazione amava tanto l'ironia perché il senso di disconnessione, sul piano sociale, era fortissimo. Voglio dire che l'ironia non era solo un atteggiamento personale: aveva a che fare con il nostro stupido intervento militare in Vietnam, per dire.
Quando ho scoperto che Gelide scene d'inverno era stato trasformato in un film, non sono rimasta sorpresa: me l'aspettavo, perché mentre lo leggevo mi veniva facilissimo immaginare i personaggi, i luoghi, il soufflé all'arancia di Laura, e Laura stessa... e questo senza che l'autrice mi fornisse molti dettagli specifici. Questo è uno dei motivi per cui la scrittura minimalista è così potente: il fatto che il lettore non può permettersi la pigrizia, deve essere in un certo modo attivo, partecipare alla storia. Secondo te esiste un rapporto privilegiato fra la scrittura minimalista, o i racconti in generale, e il cinema (penso, ad esempio, ad America oggi di Altman)?Penso che il cinema abbia sempre il vantaggio di catturare immediatamente lo spettatore, per il semplice fatto che è un mezzo visivo, e che noi tendiamo a credere a ciò che vediamo (o a ciò che crediano di vedere); e anche perché tutto, per la durata di una scena, avviene nel presente. Io scrivo spesso al presente, come se fossi una macchina da presa che riprende qualcosa. Ciò richiede al lettore di ammettere sia la propria impotenza che la propria importanza nel processo di comprensione. Lo scrittore assume l'atteggiamento di chi è solo una delle varie componenti del processo. La scrittura minimalista - non diversamente da tanti altri tipi di scrittura - lascia intendere fra le righe cose che integrano ciò che non è esplicito sulla pagina. A volte queste cose hanno il vantaggio di diventare estremamente reali, perché sono più vivide nella mente del lettore; sono presenti nel testo, ma non a parole, e quindi il lettore deve immaginarsele a modo suo. I lettori non mettono in discussione se stessi. Gli piace contestare l'autore, ma se scrivi in modo che siano loro a dover inserire certi dettagli, sono così sicuri di sé che crederanno sicuramente alla storia che racconti.
Secondo te, quali scrittori americani più giovani hanno seguito le orme del cosiddetto minimalismo? E che tipo di contributo hanno dato a questo stile? In realtà, la domanda che vorrei farti è più complessa. Viviamo in un'epoca caratterizzata da una sorta di immaginario massimalista: siamo saturi di immagini che trasformano anche gli elementi più remoti della realtà in qualcosa di familiare. Si può ancora praticare il realismo in un'epoca del genere, e se sì, quali temi può trattare?
Probabilmente questa non è la risposta che volevi, ma io penso che un aspetto molto importante della scrittura sia il tono, e che molti scrittori identificati come minimalisti in realtà usino il tono in maniera molto diversa. Sotto questo aspetto, io penso di non assomigliare per niente a Carver, e che Frederick Barthelme non assomigli minimamente a me, ecc. Quando il termine minimalismo è stato applicato alla pittura, non conteneva nessuna implicazione negativa; poi, intenzionalmente o no, quando il termine fu ripreso per applicarlo alla letteratura, tanti scrittori che avevano ben poco in comune si sono ritrovati infilati nello stesso shaker da barman e mescolati gli uni con gli altri: siamo rimasti molto confusi. Carver ha cambiato enormemente la short story americana. Ha trovato il tono giusto per la classe dei personaggi di cui parlava, e ha toccato la corda giusta: era quella che sentivamo da sempre in sottofondo. Ma uno dei segnali della grandezza di un artista è la bruttezza delle opere in cui si cerca di imitarlo. Un'imitazione di Carver la si riconosce subito. Secondo me molti scrittori di oggi si rifanno più alla sensibilità di Donald Barthelme che a quella di Carver. Un esempio molto evidente è George Saunders. Ma in un certo senso credo che anche la fascinazione di Lorrie Moore per il linguaggio in sé, i suoi giochi di parole, abbiano un antecedente in Barthelme.
All'inizio della prefazione all'edizione italiana di Gelide scene d'inverno dici una cosa molto intensa. Racconti che da giovane abitavi in una cittadina del New England e la finestra della tua stanza dava su una concessionaria di macchine usate, e guardandola ogni giorno ti sei resa conto che la scrittura era la tua unica possibilità di fuggire da quel posto. Poi il New Yorker ha rifiutato un gran numero dei tuoi racconti, prima di pubblicarne finalmente uno. Adesso che sei una scrittrice affermata, cosa consiglieresti a un giovane scrittore per aiutarlo a mantenere la concentrazione e la motivazione? E, come insegnante di scrittura creativa, non credi che l'insegnamento di una materia del genere possa diventare in qualche caso un ostacolo al processo creativo individuale?
Non è un modo per non rispondere alla domanda, ma davvero credo che a un vero scrittore - uno scrittore di talento che si impegna a restare in gioco - non ci sia bisogno di dire niente di particolare, se non offrirgli il normale incoraggiamento che serve a tutti. Il mondo letterario è cambiato completamente da quando ho cominciato io, perciò le mie opinioni, basate sulla mia esperienza, servono solo fino a un certo punto.Un aspetto in cui l'industria editoriale americana è cambiata forse in meglio è che oggi è possibile - anche se non certo facile - esordire con uno splendido libro di racconti (prendiamo Jhumpa Lahiri, ad esempio) senza dover pubblicare prima un romanzo. E poi, oggi a volte per un romanzo d'esordiosi si possono ricevere anticipi molto più alti che ai miei tempi (ma se poi quel libro non ha il successo sperato, è ancora più difficile pubblicare il secondo di quanto lo era una volta). Probabilmente a uno scrittore consiglierei semplicemente di scrivere, ma di non dimenticare di leggere.Quanto alla seconda domanda, anche a questa mi viene difficile rispondere, in parte perché io non ho mai propriamente studiato scrittura creativa, anche se ora presumo di insegnarla. Negli Stati Uniti ci sono corsi di specializzazione di questo tipo ovunque, e sono richiestissimi. Io ho visto studenti che scrivevano meglio una volta entrati nel corso dove insegno io, ma ne ho visti altri scrivere peggio. Resto convinta, comunque, che investire due anni della propria vita applicandosi seriamente alla scrittura aiuti qualunque scrittore, alla lunga, e gli dia un'idea più consapevole di cosa può essere una vita dedicata alla letteratura - non tanto nel senso di cosa si aspettano gli altri da loro, ma di cosa possono aspettarsi da se stessi.
In un'intervista, David Foster Wallace ha detto che questo è un buon momento per fare lo scrittore: «viviamo in un’epoca in cui abbiamo a disposizione una quantità enorme di puro intrattenimento, e bisogna capire come può la letteratura ricavarsi un suo spazio in un’epoca di questo tipo. È qualcosa di incredibilmente difficile, sconcertante e spaventoso, ma è un bel compito».Nella prefazione a Gelide scene invece, tu citi una maledizione cinese che consiste nell'augurare a una persona di vivere in tempi interessanti. Secondo te questa è un'epoca interessante (o bella) per fare lo scrittore? O pensi che sia più facile scrivere in un tempo più freddo, quando non succede niente di troppo traumatico e ci si può fermare a riflettere?
Chi è nato per fare lo scrittore scrive e basta, a prescindere dai consigli che gli si possano dare in senso contrario. Se mi guardo alle spalle, mi sembra che l'epoca in cui ho cominciato, gli anni Settanta, fosse, almeno per me, un momento molto migliore per scrivere. Non se ne faceva questo gran parlare: era ancora un'attività in qualche modo radicale: le distrazioni della fama riguardavano le rock star, non gli scrittori. Non appena una certa attività viene istituzionalizzata (e mi riferisco all'attenzione dei media, al parlottio su internet, non ai corsi di scrittura), quelli che la praticano sul serio devono correre a nascondersi.
Tu ci sei andata a Woodstock? Vorresti esserci stata?
No, non ci sono andata, e non rimpiango di non esserci stata!

Autore dell'intervista: Giulia Bussotti
Fonte: http://www.minimumfax.com/

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