Viaggio nel mondo che non c'è

lunedì 21 settembre 2009

Un festival celebra un genere letterario che racconta la realtàma ama le fandonie

Francis Wood, direttrice della British Library, scrisse un libro per dimostrare che Marco Polo non era mai stato in Cina, perché non parlava della Grande Muraglia né della pesca con i cormorani. Con una gran messe di prove ipotizzò che il mercante laggiù non c’era mai stato, o chissà dov'era stato. Forse ha ragione. Ma che importa? Il «Milione», che narrò a Rustichello, il compagno di cella con nome da panino d'autogrill, indusse al sogno milioni di lettori, spinse molti altri a seguirne le tracce per davvero. Perché la letteratura di viaggio si fonda sul peccato veniale della bugia, della panzana, della gradassata. E' il suo limite, ma anche il suo fascino. Altrimenti non ci sarebbe differenza tra Graham Greene e una Lonely Planet. Sul rovello «Grandi viaggiatori o grandi bugiardi?» discuteranno sabato Alberto Asor Rosa, Natalia Aspesi, Antonio Debenedetti, Boris Biancheri, Stefano Malatesta, Giorgio Montefoschi nel corso del variegato Festival romano della letteratura di viaggio, che s’inizia giovedì.«La menzogna è consustanziale al libro di viaggio - dice Stefano Malatesta - mi piace pensare che sia così fin da quando gruppetti di homo sapiens cominciarono a migrare per la terra. Condendoli con grugniti e gesti, la sera, davanti ai falò, si raccontavano di avventure meravigliose. Ed erano quelle balle che li spingevano a lasciare le loro savane per scoprire l'Europa. Sulle balle abbiamo vissuto letterariamente per millenni. E man mano che l'ignoranza del mondo diminuisce aumenta la difficoltà di raccontarlo in un libro. Oggi se non impossibile il compito è diventato molto arduo».Con Google Earth, tv, Internet come fai ancora ad affascinare il lettore con resoconti mirabolanti? Se racconti di avamposti sperduti, trovi sempre l'impiegato giramondo che è stato laggiù e ti smaschera in un blog. E c'è sempre il pignolo che alza un dito per correggere il ragguaglio esotico dicendo sapientello che quella tal stazione laggiù nella Patagonia di Chatwin non era a trenta metri dal bar, bensì a settanta, e al miglio 730 della strada di Kerouac non c’era un campo di mais ma un motel. Ha ragione il bancario nomade, ovviamente, ma la sua verità serve tutt’al più a pepare una serata con pizza e diapositive di viaggio, non a sperdersi nel mondo con l’inventiva, restando seduti in poltrona con un libro in mano. Per violare confini abbiamo bisogno di stupendi inganni, non di Tom Tom, dei Viaggi di Gulliver, non del preciso elenco di ristoranti e hotel. Sono stati infatti i grandi viandanti, dai papiri egizi, ai greci, ai cinesi, ad avviare la globalizzazione del mondo, riferendo di esseri umani con una gamba sola e di stuzzichevoli tesori. Loro aprivano la mente con il grimaldello della fantasia, poi arrivavano i militari ambiziosi di guerre e i mercanti bramosi d'affari, per allargare i regni e rimpinguare il pil degli imperi. C'è sì bisogno dei geometri romani per lastricare strade perfette e avviare le comunicazioni, ma per ampliare gli orizzonti servono gli avventurieri mascalzoni e mendaci. Uno dei primi diari di viaggi dell'epoca moderna è stata la salita al monte ventoso del Petrarca. Tormentato da Laura, s'inerpicò sul Mont Ventoux, in cerca di spiritualità. Oggi, con l'occhio smaliziato di chi sa che fra un po' arriverà la funivia sull'Everest, quella vetta di 1900 metri pare una collina. Ma dalle parole ardite del poeta è nata la voglia di scalare cime, di scomodare divinità, di inventarsi un passatempo chiamato alpinismo. Abbisogniamo di bombardoni alla Münchausen, di marinai che per un sorso di whisky le sparano grosse. Il colonnello Alexander Gardner è il simbolo di questa schiera di smargiassi. Viveva a Peshawar, si vantava delle 17 ferite accumulate in battaglie con tagliagole afgani, finì la vita a fare il torturatore per i signorotti locali a squarciare nasi e labbra con il rasoio. Tutti quelli che volevano conoscere i segreti dell’Himalaya andavano a prendere un tè a casa sua. Era talmente celebre che pubblicò persino sulla rivista della Royal Society. Naturalmente venne smascherato. Ma il presidente della società rispose che anche i Vangeli hanno i loro apocrifi. E Rudyard Kipling lo rese immortale nell’«Uomo che volle farsi re». Anche lì, tradendo la realtà con la fantasia.Oltre alle menzogne fantasiose nei libri di viaggio allignano pure pietose, pudiche omissioni. Non tutti gli scrittori hanno il coraggio di esternare debolezze, turpitudini, paure. Bello raccontare l'incontro con un anaconda di 50 metri, meno edificante confessare d’aver avuto le gambe tremanti di paura. I rampolli dell’800 si lanciavano nei Gran Tour con Goethe in bisaccia per estasiarsi davanti a una statua o a una rovina classica. Ma dato che il Sudeuropa era pure occasione del turismo sessuale dell'epoca, pochi confessavano mercimoni con contadinelle. Ci volevano spiriti forti, capaci, in questo caso, di raccontare la verità più scandalosa della bugia arabescata. Ci vuole De Sade, che appena uscito di galera per aver organizzato un'orgia con escort lionesi e strani intrugli, scrisse un bellissimo viaggio in Italia raccontando serio le città e anche la prostituzione minorile a Napoli. Oggi la letteratura di viaggio non è morta. È diventata solo molto, molto più ardua. Difficile stupire il pubblico globale, perché i margini delle zone vergini si restringono. Non abbiamo più Conrad, i tre uomini di J. K. Jerome, nemmeno Arbasino nell'Italia del boom. Ma non tutto è perduto. La mobilissima umanità continua a scompigliare geografie e città. E si rinnova il reportage tra le roulotte di chi ha perso tutto con i subprime o nelle banlieue dove gli immigrati in Occidente costruiscono nuovi mondi. Ci sono i viaggi dolenti di Terzani, le pianure di William Least Heat-Moon, la Istanbul di Pamuk. E se proprio l'overdose di informazioni, i pacchetti vacanza, saturano la curiosità, resta il viaggio alla Xavier De Maistre. Chiuso agli arresti domiciliari per una quarantina di giorni in seguito a un duello, scrisse «Il viaggio intorno alla mia camera». Il suo mondo era di pochi metri quadrati, la massima avventura possibile era lo scricchiolio della sedia a dondolo o il quadro a una parete. Poteva solo mentire a sé stesso per viaggiare.

Autore dell'articolo: Bruno Ventavoli

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